Parliamo di…

Rapporto Annuale ISTAT 2023!

Si aggiunge una nuova uscita al format Parliamo di…, a cura di CNA Pensionati e Patronato Epasa-Itaco.

Pensato per rendere più fruibile ed immediata la consultazione delle principali pubblicazioni politico-istituzionali nel Paese, questa volta verranno approfondite alcune tematiche di particolare interesse per i nostri associati riguardo al Rapporto Annuale curato dall’ISTAT

Il commento di Antonio Licchetta, Responsabile Nazionale  CNA Politiche Sociali e Previdenza.

L’ultima fotografia scattata dall’ISTAT raffigura un Paese, il nostro, alle prese con una dinamica ormai piuttosto chiara: da un lato, un quadro demografico in costante declino con un progressivo invecchiamento della popolazione e, dall’altro, l’opportunità per i giovani di giocare un ruolo decisivo nel rappresentare il motore della crescita futura…

Che cos’è il Rapporto Annuale ISTAT?

Il rapporto annuale, arrivato alla sua trentunesima edizione, dà conto delle trasformazioni demografiche, sociali, economiche e ambientali che hanno caratterizzato lìItalia negli ultimi anni. È uno degli strumenti principali di analisi e conoscenza prodotti dall’ISTAT, che consente di soddisfare la domanda di informazione che proviene dalla società, per far fronte alla complessità delle trasformazioni in atto. In questa edizione, in particolare, è stata analizzata la questione demografica, sia rispetto al progressivo invecchiamento della popolazione sia rispetto alla centralità della “questione giovanile (tematica affrontata nel commento a cura del Responsabile Politiche Sociali e Previdenza CNA), quale risorsa da valorizzare e potenziale da non disperdere per costruire un futuro coerente con gli obiettivi di sviluppo e di inclusione sociale.

L’aumento consistente della popolazione anziana costituirà, soprattutto in prospettiva, un cambiamento senza precedenti e di vaste proporzioni per il nostro Paese. Sul piano qualitativo, si dovrà agire per migliorare il benessere degli over 65, in modo che l’ampliamento dell’orizzonte temporale della vita sia accompagnato dall’aumento degli anni vissuti in buona salute, liberi da condizioni che ne limitino l’autonomia e la capacità di avere contesti relazionali soddisfacenti.

L’inverno demografico* viene da lontano

Gli effetti dell’invecchiamento della popolazione si fanno sempre più evidenti: il consistente calo delle nascite registrato nel 2022, rispetto al 2019, è dovuto per l’80 per cento alla diminuzione delle donne tra 15 e 49 anni di età e per il restante 20% al calo della fecondità. L’invecchiamento è destinato ad accentuarsi nei prossimi anni, con il rischio di effetti negativi sul tasso di crescita del Pil pro capite.

Nei primi quattro mesi del 2023 i decessi sono 232 mila (in totale, l’anno prima sono stati 713mila!), in netta diminuzione rispetto agli anni precedenti: -21 mila sul 2022 e -42 mila sul 2020. Anche rispetto al 2019, i decessi si confermano in calo con quasi 2 mila unità in meno. L’eccesso di mortalità anticipata degli anni passati che ha colpito la popolazione più anziana e fragile fa sì che il numero dei decessi attuali sia più contenuto.

In soli due anni (2020-2021) la perdita di popolazione residente (-611 mila persone) ha quasi uguagliato il deficit registrato in tutto il quinquennio 2015-2019 (-654 mila). Quindi, al 31 dicembre 2022 la popolazione residente in Italia ammonta a 58.850.717 unità (-179.416 rispetto all’inizio dello stesso anno, -3,0 per mille); tale calo presenta, tuttavia, un’intensità minore, sia rispetto a quello osservato nel 2021 (-3,5 per mille) sia a quello del 2020 (-6,8 per mille), tornando a livelli simili al periodo pre-pandemico (-2,9 per mille nell’anno 2019).

* Per “inverno demografico” si intende uno scenario in cui di anno in anno la popolazione vede ridurre la sua capacità di rinnovarsi per effetto dell’apporto quantitativo dato dall’ammontare delle nuove generazioni. Il fenomeno, così evidente oggi, viene tuttavia da lontano ed è dovuto solo in parte alla scelta di avere meno figli rispetto al passato, o di non averne, da parte dei potenziali genitori.

L’evoluzione recente della sopravvivenza

Un terzo dell’eccesso di mortalità del 2022 rispetto al valore atteso si concentra nei mesi di luglio e agosto, caratterizzati da un’ondata di caldo anomalo. In questi due mesi sono stati registrati quasi 123 mila decessi, con un aumento nel mese di luglio che arriva al 22,8 per cento rispetto al 2021, anno ancora fortemente perturbato dalla pandemia. La persistente ondata di caldo del 2022 ha interessato molti altri paesi europei, come Spagna, Portogallo e Germania, dove si sono osservati analoghi fenomeni di super-mortalità. Anche in concomitanza dei mesi più rigidi, gennaio e dicembre 2022, si è osservato un eccesso di mortalità. Nel complesso, sommando i valori di gennaio, luglio, agosto e dicembre si arriva a 265 mila, quasi il 40% del totale dei decessi dell’anno.

Negli ultimi venti anni, livelli di mortalità così elevati negli stessi mesi si sono verificati nel 2003, 2015 e 2017, pari al 35% dei decessi annuali. Un segnale di quanto i cambiamenti climatici stiano assumendo rilevanza crescente anche sul piano della sopravvivenza, per un Paese in cui sono sempre più numerosi i grandi anziani e tra essi i soggetti che, per via della loro generale fragilità, sono più esposti al rischio di subire le conseguenze delle condizioni climatiche estreme.

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L’Italia comunque è uno dei paesi con i più alti livelli di sopravvivenza. Nel panorama Ue27, secondo i dati Eurostat del 2021, si osserva una speranza di vita alla nascita decisamente più elevata di quella italiana (80,3 per gli uomini e 84,8 per le donne) solo in Svezia (81,3) per gli uomini, e in Francia (85,5) e Spagna (86,2) per le donne. Nel 2022 la stima della speranza di vita alla nascita è di 80,5 anni per gli uomini e 84,8 anni per le donne; solo per i primi si nota, rispetto al 2021, un recupero quantificabile in circa 2 mesi e mezzo di vita in più. Per le donne, invece, il valore della speranza di vita alla nascita rimane invariato rispetto all’anno precedente. I livelli di sopravvivenza del 2022 risultano ancora al di sotto di quelli del periodo pre-pandemico, registrando valori di oltre 7 mesi inferiori rispetto al 2019, sia tra gli uomini, sia tra le donne.

La speranza di vita all’età di 65 anni è stimata nel 2022 in 18,9 anni per gli uomini e 21,9 anni per le donne. Anche in questo caso, rispetto all’anno precedente, si registra un guadagno solo per gli uomini (+0,1), mentre per le donne si ha la perdita di un decimo di anno. Rispetto al 2019 persiste un gap negativo significativo, quantificabile in circa sei mesi per gli uomini e oltre otto mesi per le donne, a ulteriore conferma che la pandemia ha avuto effetti negativi soprattutto tra la popolazione più anziana e, in particolare, femminile.

Prosegue l’invecchiamento della popolazione

Il processo di invecchiamento della popolazione prosegue imperterrito, portando l’età media della popolazione da 45,7 anni a 46,4 anni tra l’inizio del 2020 e l’inizio del 2023. Le dinamiche demografiche prevedono un consistente aumento dei cosiddetti “grandi anziani”. Nel 2041 la popolazione ultraottantenne aumenterà del 35,2 per cento rispetto al 2021, superando i 6 milioni; quella degli ultranovantenni addirittura arriverà a 1,4 milioni (+69,4% sul 2021).

Si tratta di scenari che pongono molti interrogativi sulla capacità dell’Italia di far fronte a una situazione demografica “sconosciuta”, nel senso che nessun grande paese l’ha mai sperimentata fino a ora in queste proporzioni.

Ma c’è un potenziale di opportunità: il limite di età che definisce l’ingresso nella terza e quarta età si va fluidificando. I concetti di invecchiamento attivo e silver age* si identificano con una fase della vita sempre più ampia, in cui le persone, pur avendo superato di molto la soglia dei 65 anni di età convenzionalmente adottata per il calcolo degli indicatori demografici riferiti all’invecchiamento, vivono in buona salute e continuano a partecipare pienamente ai vari ambiti della vita sociale, economica, politica e culturale.

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La popolazione ultrasessantacinquenne ammonta a 14 milioni 177 mila individui al 1° gennaio 2023, e costituisce il 24,1% della popolazione totale. Tra le persone ultraottantenni si rileva comunque un incremento, che le porta a 4 milioni 529 mila e a rappresentare il 7,7 per cento della popolazione totale.

Il Centro e il Nord presentano una proporzione di ultrasessantacinquenni leggermente più alta di quella nazionale, rispettivamente pari al 24,7% e al 24,6%. Nel Mezzogiorno tale proporzione è invece del 23%. Gli ultraottantenni costituiscono l’8,2% della popolazione totale nel Nord e nel Centro e il 6,8% nel Mezzogiorno.

* A parità di età, nel confronto tra gli “anziani di oggi” (2022) e gli “anziani di ieri” (2002), nella graduatoria dei miglioramenti osservati sia per la popolazione di 65-74 anni, sia per quella dai 75 anni, troviamo ai primi posti la pratica sportiva, le attività di volontariato e la fruizione delle biblioteche, a testimoniare un progressivo diffondersi di comportamenti attivi e proattivi. A questo si accompagna un generale miglioramento negli stili di vita e nelle condizioni di salute, come la riduzione dei consumi di alcol a rischio, un lieve aumento nel consumo quotidiano di frutta e/o verdura, il decremento della condizione di multicronicità (tre o più malattie croniche).

Gli squilibri tra generazioni si differenziano sul territorio

Le dinamiche demografiche verificatesi in Italia negli ultimi decenni hanno avuto un impatto non uniforme nel territorio, con alcune marcate differenze sia lungo il gradiente Centro-Nord e Mezzogiorno sia nel confronto tra aree interne e aree centrali.

Le aree interne (4.070 comuni italiani, il 51,5 per cento del totale) si caratterizzano per un marcato decremento demografico e un progressivo invecchiamento della popolazione, accentuati da una consistente emigrazione, soprattutto di giovani, non controbilanciata da altrettanti flussi in entrata. Tra il 1° gennaio 2002 e il 1° gennaio 2023 la popolazione delle aree interne è infatti diminuita, passando dal 23,9% al 22,7% della popolazione totale. Il declino demografico nelle aree interne si osserva fin dal 2011.

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Rapportando la popolazione anziana alla popolazione in età 15-34 emerge un forte cambiamento tra generazioni. Se al 1° gennaio 2002, in Italia il rapporto denotava un vantaggio quantitativo della componente giovane, con 70,5 anziani ogni 100 giovani, al 1° gennaio 2023, dopo ventuno anni, misura, invece, uno squilibrio a vantaggio della componente anziana, con 117,9 anziani ogni 100 giovani di 15-34 anni. L’aumento è stato più forte nelle aree interne, rispetto a quelle centrali: al 1° gennaio 2023, le aree interne hanno un rapporto uguale a 122,1 (era 73,6 nel 2002), mentre le centrali registrano un valore pari a 116,7 (era 69,5). Per le aree interne, sono molti i comuni con uno squilibrio importante (pari a 160 e oltre) e questi comuni si snodano per lo più lungo la fascia appenninica, appartenendo quindi ad aree ultraperiferiche che scontano difficoltà anche legate al territorio.

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Squilibri demografici e centralità dei giovani nel Rapporto Annuale ISTAT 2023
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L’ultima fotografia scattata dall’ISTAT raffigura un Paese, il nostro, alle prese con una dinamica ormai piuttosto chiara: da un lato, un quadro demografico in costante declino con un progressivo invecchiamento della popolazione e, dall’altro, l’opportunità per i giovani di giocare un ruolo decisivo nel rappresentare il motore della crescita futura.

Il primo tema, quello relativo al famoso “inverno demografico”, è stato ben evidenziato, e quindi non vale la pena soffermarsi qui oltremodo: il combinato disposto di un’alta speranza di vita e di una bassa fecondità, contribuiscono al progressivo aumento degli anziani e alla contrazione dei giovani, determinando un allarmante squilibrio intergenerazionale, soprattutto in alcune aree del Paese.

Sulla fecondità, in particolare, l’ISTAT fornisce un dato per certi versi sorprendente, perché ricorda che “è dalla metà degli anni Settanta che il numero medio di figli per donna è sceso sotto la soglia di 2,1, valore che sancisce un teorico equilibrio nel ricambio generazionale”. La diminuzione è stata continua, fino al minimo storico di 1,19 figli per donna del 1995. La fecondità, ci dice l’ISTAT, ha poi ripreso ad aumentare, arrivando al massimo relativo di 1,44 figli per donna del 2010.

Questo aumento è stato sostenuto soprattutto dalle nascite con almeno un genitore straniero, arrivate a costituire circa un quinto del totale dei 562 mila nati del 2010. Successivamente, complici gli effetti non solo economici ma anche sociali delle crisi del 2008 prima, e del 2011-2012 poi, è iniziata una nuova fase di rapida diminuzione delle nascite e del numero medio di figli per donna, oggi pari a 1,24.

Ma questi “pochi nati” di oggi, come si diceva in apertura di questo scritto, hanno l’opportunità di essere il vero motore della futura crescita economica e sociale di questo Paese, e non solo. Potranno intestarsi il decisivo, storico contributo dato per affrontare sfide epocali, interne (calo demografico, innovazione nella Pubblica amministrazione e nelle piccole e medie imprese) ed internazionali (su tutte, la transizione ecologica). Naturalmente a patto che siano posti nelle necessarie condizioni. E qui, il tema degli investimenti e della formazione torna decisivo.

Per mettere le nuove generazioni in grado di affrontare positivamente i cambiamenti in atto, e per prevenire l’insorgere di situazioni di vulnerabilità purtroppo oggi largamente presenti tra i giovani, è necessario garantire a tutti bambini, fin dalla nascita, livelli di benessere che consentano un adeguato livello di sviluppo fisico, cognitivo, emotivo e relazionale. Questo obiettivo va perseguito incidendo sui contesti di vita dei bambini e sulle opportunità educative, formative, culturali e di socializzazione a cui sono esposti.

Fermo restando quanto sopra, i dati sulla spesa per la protezione sociale forniti nel rapporto in commento mostrano tutt’altro, perché in Italia siamo in presenza di un netto sbilanciamento verso le funzioni rivolte a coprire i rischi delle generazioni adulte e anziane. Nonostante l’Italia sia uno dei paesi europei che investe una quota più alta del Pil in prestazioni per la protezione sociale (33,2% del Pil, un valore secondo solo a quello francese pari al 35,2%), la quota destinata alle prestazioni destinate alle famiglie e i minori è molto più contenuta che negli altri paesi europei (1,2% contro valori come quello tedesco del 3,7%).

Ovviamente questo squilibrio, sebbene comune a tutti i paesi europei, è più rimarcato in Italia anche a causa del più pronunciato invecchiamento demografico. Tuttavia, esso persiste anche nel confronto con un paese come la Germania, che ha un livello di invecchiamento pari o superiore al nostro.

Il quadro comparativo fornito dall’ISTAT non migliora guardando ai valori pro capite e, soprattutto, alle modalità di spesa: in Europa ogni abitante riceve 673 euro tra prestazioni sociali per bambini e famiglie, di cui i trasferimenti in denaro sono il 63%, mentre l’Italia ha una spesa media per abitante di 318 euro (meno della metà), e i trasferimenti in denaro ne rappresentano l’83%. Come dire: meno risorse, meno servizi, più interventi a pioggia rispetto agli altri paesi europei.

Nel quadro sopra brevemente illustrato, e adottando un’ottica di welfare state come investimento sociale e non di mera distribuzione di risorse economiche, il pensiero corre al Programma Next Generation EU. La centralità posta dall’Unione europea sul fattore “giovani” si rispecchia infatti già nella scelta di intitolare il Programma proprio alle “nuove generazioni”.

Per il nostro Paese si tratta di cogliere un’opportunità per far valere di più la risorsa che sarà sempre meno disponibile: i giovani. Le notevoli risorse finanziarie messe in campo per intraprendere un percorso di ripresa e resilienza devono supportare investimenti che accompagnino e rafforzino il benessere dei giovani nelle diverse fasi dei percorsi di vita, intervenendo fin dalla primissima infanzia.

In coerenza con quanto sopra, le misure a supporto del benessere, dell’inclusività e della crescita delle competenze e conoscenze per le prossime generazioni sono uno dei sei pilastri del Recovery and Resilience Facility e il riequilibrio dei divari generazionali è uno dei tre obiettivi trasversali del PNNR.

Si tratta di continuare su questi presupposti e di vigilare affinchè  le missioni che ruotano attorno a questi temi non siano tra le prime vittime dell’attuale ridefinizione complessiva del PNRR.